L’alta Val Brembana, come gran parte delle Alpi Orobie meridionali, è ricca di giacimenti minerali in particolare in Val Stabina.
I mutamenti sono causati sia da fattori naturali sia dall’attività dell’uomo e dai suoi rapporti con le risorse del territorio. In particolare l’uomo è sempre stato un fattore ecologico decisivo nel determinare la transizione dal paesaggio naturale a quel paesaggio colturale che ci sta oggi davanti agli occhi. L’aggettivo colturale è molto importante perché indica che l’ambiente è il risultato della fusione tra gli elementi naturali e il lavoro dell’uomo, il quale ha da sempre utilizzato e coltivato le risorse del territorio. In Valle Brembana sussiste tuttora un forte legame tra l’ambiente naturale e le attività umane e, anche se il progresso ha determinato una sensibile contrazione dell’attività agricola, è ancora possibile apprezzare l’alternarsi di prati falciati sul fondovalle, boschi di latifoglie e di conifere sui versanti, contrade agricole, prati e terrazzamenti sui pendii più comodi e soleggiati, pascoli e praterie in alto fino al piede delle pendici rocciose.
Questa eterogeneità è dovuta essenzialmente all’azione dell’uomo agricoltore, allevatore e boscaiolo che modella il paesaggio e condiziona l’evoluzione della vegetazione. Quest’ultima infatti, in condizioni di assoluta naturalità e senza interventi umani, si evolve progressivamente verso strutture e composizioni (in ecologia chiamate fasi climax) che vedono generalmente il prevalere del bosco lungo le vallate e sui versanti e delle praterie alpine sopra i 1.800-2.000 metri di altitudine, con una sostanziale monotonia ed uniformità del paesaggio. In termini ecologici l’azione colturale dell’uomo, aumentando la diversificazione degli ambienti, crea le condizioni per l’insediamento e lo sviluppo di un maggiore numero di specie vegetali e animali e diventa pertanto motivo di ricchezza dell’ecosistema. Il rispetto e la conservazione degli ambienti naturali non significa pertanto congelare il paesaggio limitando le attività colturali dell’uomo. Al contrario è necessaria una gestione attiva attraverso i lavori tradizionali legati al bosco e al territorio, in modo da salvaguardare le caratteristiche esistenti e i pregi estetici e naturalistici. In questo modo la tutela ambientale considera l’uomo e le sue esigenze come parte attiva del processo di salvaguardia e attribuisce alle attività colturali un preciso ruolo nel mantenimento degli equilibri naturali.
Un esempio di ciò è riscontrabile anche in Val Brembana, dove il bosco è sempre stato considerato un fondamentale elemento dell’economia locale, da gestire con attenzione e da tutelare in quanto bene rinnovabile. Da esso si traevano risorse sia per la vita domestica (legna da ardere e strame per il bestiame), sia per le attività artigianali e industriali (legname da opera e carbone per le fucine e i forni). Ne danno testimonianza alcuni documenti del XVI secolo, nei quali gli abitanti della Valle, consci dei pericoli di un eccessivo disboscamento e consapevoli della necessità di tutelare la fonte principale di combustibile per l’attività metallurgica (all’epoca importantissima), stabiliscono le norme e le regole per il taglio della legna da trasformare in carbone per le fucine. A questo periodo risalgono anche le prime forme di regolamentazione per l’uso e la fruizione in forma collettiva dei patrimoni silvo-pastorali, istituite al fine di salvaguardare una risorsa economica essenziale. I primi regolamenti e statuti possono considerarsi tuttora validi esempi di gestione programmata e testimoniano una significativa lungimiranza degli amministratori del tempo. Da questi antichi regolamenti derivano i diritti di uso civico, tuttora vigenti, che riguardano l’esercizio del pascolo, la raccolta della legna da ardere e del legname da opera e da costruzione per le necessità familiari. L’importanza storica e sociale del bosco e la sua rilevanza come bene collettivo, viene evidenziata anche attraverso la composizione fondiaria che si è tramandata fino ai giorni nostri e che, sul territorio dell’alta Valle, vede prevalere nettamente la proprietà pubblica delle Amministrazioni comunali sulla proprietà privata. Quest’ultima inoltre mantiene mirabili esempi di gestione collettiva dei fondi privati come i boschi degli antichi originari” dei Comuni di Piazzatorre e di Piazzolo, i quali vengono gestiti in modo unitario e pianificato, pur essendo costituiti da numerosissimi proprietari. Lo stretto legame tra il bosco e la vita delle comunità di montagna ha sviluppato nel corso dei secoli una profonda cultura forestale, testimoniata dalle generazioni di boscaioli che dalla Valle Brembana sono partiti per lavorare in Francia e Svizzera. I carbonai (esperti nel trasformare la legna da ardere in prezioso carbone attraverso la combustione controllata del poiàt, la carbonaia) e i borelér (boscaioli specializzati in boschi di conifere) della Valle Brembana erano tra i più noti e ricercati. Ancora oggi alle ditte boschive della Val Brembana e della bergamasca in generale, viene riconosciuta e apprezzata la notevole perizia e dimestichezza con la quale installano e manovrano i complessi impianti a fune per l’esbosco del legname. Dopo questa lunga premessa, che ha voluto ricordare il profondo legame ecologico tra gli abitanti e il territorio della Valle, entriamo nel paesaggio della Val Mora, tributaria del Fiume Brembo di Mezzoldo, per conoscere alcuni aspetti significativi dell’ambiente e della cultura rurale della Valle Brembana. L’itinerario proposto attraversa scenari diffusi e caratteristici del territorio dell’alta Valle ed è solo uno tra i tanti tracciati che dal fondovalle risalgono le pendici boscate fino a raggiungere i pascoli, dove il bestiame viene portato per l’alpeggio estivo. Il percorso è adatto a tutti gli escursionisti e si sviluppa lungo una comoda strada di servizio che parte dalla Frazione di Valmoresca (quota 930 m) in Comune di Averara e sale fino all’Alpe di Cantedoldo (quota 1750 m). Prima di arrivare a Valmoresca, vale la pena dedicare un paio d’ore alla visita delle contrade di Averara, ricche di spunti storici e architettonici di grande interesse, testimonianze del passato regime feudale che vedeva la Val Mora compresa nella Contea della Valsassina, il vasto feudo della famiglia dei Torriani, potenti nobili che ebbero una grandissima influenza nel Comune di Milano.
Quest’ultimo dimostrò sempre uno spiccato interesse per le lontane valli bergamasche, motivato sia da considerazioni economiche, in virtù delle importanti produzioni di ferro delle miniere della Val Torta e della Valle di Mezzoldo, sia da valutazioni politiche relative ai rapporti con Venezia, che dopo il 1400, estese il suo dominio su gran parte della Valle Brembana. Le due torri medioevali che si possono osservare ad Averara costituiscono una parte di quel dispositivo di protezione della contea, realizzato mediante torri di guardia in grado di segnalare tra loro con messaggi a fumo durante il giorno o con segnali luminosi a fuoco durante la notte. Con l’avvio delle coltivazioni minerarie e della metallurgia gli scambi commerciali tra la Valle Brembana, la Valsassina e i Grigioni, divennero particolarmente attivi e nei paesi posti lungo la testata dell’alta Valle, sorsero palazzi e porticati di notevole pregio artistico ed architettonico. Ad Averara troviamo uno dei più interessanti esempi di strada porticata, ricca di stemmi e affreschi che ornano la facciate degli antichi portici e la bellissima Dogana Veneta di Redivo, un edificio sicuramente unico nel suo genere, caratterizzato dalle pregevoli scale lignee che si sviluppano su tutta la facciata. Torniamo al titolo e al tema conduttore dell’itinerario, per segnalare una significativa realtà, nata ad Averara sugli sviluppi degli studi di un antico studioso e alchimista, esperto conoscitore delle virtù officinali di erbe e piante. Presso la contrada di Redivo è possibile visitare un’azienda agricola specializzata nella lavorazione delle piante officinali e nella produzione di prodotti cosmetici e terapeutici con metodologie e costituenti assolutamente naturali. I laboratori sono realizzati in una antica e bella cascina ristrutturata e nei vicini appezzamenti vengono coltivate numerose essenze difficili da reperire in natura perché troppo sporadiche o perché localizzate in aree geografiche differenti. Gran parte della materia prima utilizzata proviene da raccolte effettuate sul territorio dell’alta Valle; gli addetti dell’azienda, veri esperti della flora locale, conoscono, a seconda delle specie, quali sono i luoghi migliori per la raccolta di foglie, fiori o radici. E’ significativo il fatto che questa piccola realtà produca essenzialmente per il mercato del Nord Europa e che sia sostenuta da una importante società tedesca, la cui attività dipende fortemente dai raccolti e dai prodotti della Valle Brembana. A detta dei responsabili della casa madre, le erbe raccolte nell’alta Valle possiedono i più alti contenuti di principi attivi e, cosa sempre più rara, non presentano tracce di inquinanti. Affrontiamo ora l’itinerario vero e proprio che ci porterà dal fondovalle fino ai pascoli dell’alta Val Mora. Da Averara si sale fino alla frazione Valmoresca e, lasciata la macchina, si imbocca la strada forestale che parte in corrispondenza dell’ultimo tornante prima della frazione.
Questa strada è stata realizzata sul tracciato della vecchia mulattiera, è chiusa agli autoveicoli e può essere utilizzata esclusivamente dai mezzi di servizio degli operatori che svolgono operazioni selvicolturali nei boschi comunali, dai conduttori dei fondi agricoli e dagli allevatori che portano il bestiame in alpeggio. Appena sopra la frazione di Valmoresca, poco a valle del tracciato della strada, si può osservare quello che resta di alcuni bei castagneti da frutto. Il castagno (Castanea sativa), albero maestoso e molto longevo, è sempre stato preziosissimo per l’economia agricola delle popolazioni di montagna, tanto che è coltivato e diffuso in tutte le aree collinari e montane, dal bacino del mediterraneo orientale (area di probabile indigenato), fino a tutta l’Europa occidentale. In Valle Brembana i boschi di castagno si incontrano più frequentemente nella bassa valle dove il clima è meno rigido; i castagneti della Val Mora, insieme a quelli sopra gli abitati di Moio de’ Calvi e Olmo al Brembo, costituiscono le uniche testimonianze di questa coltura sul territorio dell’alta valle. Il castagneto da frutto si caratterizza per i grandi e maestosi alberi, mantenuti radi in modo che la chioma, beneficiando di una maggiore quantità di luce, possa espandersi e fruttificare in abbondanza. Normalmente tra i castagni si apprestavano piccoli appezzamenti terrazzati e coltivati in modo da sfruttare ulteriormente lo spazio disponibile e mantenere pulito il terreno per la raccolta delle castagne. Il legno del castagno è forte e durevole grazie al notevole contenuto in tannino, una sostanza fenolica che lo preserva dallo sviluppo dei funghi e lo rende resistente all’acqua e all’aria. Prima dell’avvento dei prodotti di sintesi questa sostanza è stata oggetto di un notevole interesse da parte delle industrie, che acquistavano il legname di castagno per estrarne il tannino da destinare alle concerie, alle fabbriche di coloranti, inchiostri e mordenti o anche alle ditte alimentari come agente chiarificante nella produzione del vino e della birra. In prossimità del primo tornante dopo la sbarra, la strada entra nella proprietà comunale e attraversa un bosco di faggio (Fagus sylvatica) governato a ceduo. La forma di governo di un bosco è il modo con il quale, mediante le tecniche selvicolturali, viene assicurata la rinnovazione del bosco. Se l’insieme dei trattamenti utilizzati dal selvicoltore determina la rinnovazione del bosco mediante nuove piantine nate da seme, si ha il governo a fustaia. Se invece gli interventi provocano la rinnovazione mediante nuovi fusti, che si originano da gemme che compaiono alla base degli alberi recisi (ceppaie), si ha il governo a ceduo.
La capacità di generare nuovi fusti dalle gemme della ceppaia è propria solo di alcune specie che comunemente si identificano con le latifoglie, quali appunto il faggio, il castagno, gli aceri, i frassini e tante altre. Il faggio è la specie più tipica e diffusa di tutte le Prealpi e la faggeta rappresenta l’ultimo stadio evolutivo dei boschi di latifoglie dell’orizzonte montano. Oltre a produrre ottima legna da ardere grazie alla corteccia sottile che non ostacola la combustione, il faggio è molto utilizzato dalle falegnamerie e dalle tornerie. Queste ultime costituiscono una rilevante realtà economica della bassa Valle Brembana la quale, grazie agli stabilimenti di Brembilla e di Zogno, esporta oggettistica in faggio nel resto d’Italia. Purtroppo però le faggete della Val Brembana, così come quelle di gran parte delle Prealpi italiane, producono un legno troppo nervoso che tende a fessurarsi e che non può essere utilizzato per lavorazioni particolari. Le industrie locali così devono rivolgersi per lo più all’estero per l’acquisto della materia prima, lasciando al legno nostrano il solo compito di soddisfare il fabbisogno di legna da ardere. Sulla pendice di monte, il ceduo di faggio è stato tagliato negli anni 1994-96, nell’ambito degli interventi di utilizzazione previsti a beneficio dei residenti del Comune di Averara. Si tratta di una forma di uso civico che grava su gran parte delle proprietà pubbliche dell’alta Valle Brembana e che dà diritto ai residenti di ciascun comune di avere assegnato un piccolo lotto di bosco da tagliare per il fabbisogno familiare di legna da ardere. Anche se il diritto di uso civico sui boschi ha gradualmente perso l’importanza di un tempo, è molto utile ricordare il significato e il profondo valore sociale di una norma che salvaguarda un bene pubblico vincolandolo a beneficio della popolazione. Appena sopra il primo ripido tratto pavimentato in calcestruzzo, si attraversa un canale: qui il bosco cambia sensibilmente e il faggio lascia il posto alle conifere. I segni e la numerazione di colore azzurro che si osservano su una roccia a sinistra indicano le particelle forestali, ovvero quelle aree di bosco omogeneo per caratteristiche ecologiche e composizione specifica, sulle quali vengono effettuati gli interventi selvicolturali previsti dal Piano di assestamento forestale. Il piano di assestamento è il principale strumento di gestione e pianificazione delle foreste di ciascun comune: in esso vengono programmati gli interventi più idonei e vengono prescritti i tagli necessari per regolare la struttura e assicurare la rinnovazione del bosco. La conifera più diffusa, in Val Brembana come su gran parte delle Alpi, è l’abete rosso (Picea excelsa), che forma bellissime e suggestive fustaie, estese dal fondovalle fino al piede degli alpeggi e delle pendici rocciose. All’abete rosso si associa l’abete bianco (Abies alba), simile a prima vista, ma facilmente riconoscibile per la corteccia più chiara e argentea, per gli aghi appiattiti con due evidenti linee bianche sulla pagina inferiore e per le pigne portate erette sui rami. Sui versanti più esposti al sole e con condizioni ecologiche più difficili (terreno più asciutto e superficiale) troviamo altre due specie importanti e caratteristiche delle fustaie dimontagna: il pino silvestre (Pinus sylvestris) e il larice (Larix decidua). Il pino silvestre si può riconoscere per gli aghi lunghi portati a fascetti di due, le piccole pigne tondeggianti e, soprattutto, per la corteccia che, nelle porzioni più giovani (in alto e sui rami) tende a sfaldarsi in sottili strati rossicci. Il larice è l’unica conifera che perde le foglie in autunno e questo lo rende riconoscibile, anche da lontano, in tutte le stagioni dell’anno, grazie alle bellissime tonalità che vanno dal verde chiaro della primavera e dell’estate, al bruno-rossiccio dell’autunno ed al grigio dell’inverno. Appena dopo l’attraversamento del canale si può osservare un piccolo ed interessante lembo di bosco misto con abeti rossi, faggi, larici e pini silvestri.
Le foreste formate da più specie diverse, meglio se rappresentate con alberi di tutte le età, costituiscono ecosistemi molto equilibrati, in grado di svolgere al meglio le funzioni riconosciute al bosco: la produzione di biomassa rinnovabile (legna da ardere e legname da opera), la protezione e difesa idrogeologica del suolo e la valenza ambientale, estetica e paesaggistica. Molto spesso però, in mancanza di corretti interventi selvicolturali, le nostre foreste evolvono verso strutture omogenee, composte da una sola specie rappresentata da alberi quasi tutti coetanei e delle stesse dimensioni. Questa situazione, soprattutto nei popolamenti di conifere, può essere molto delicata in quanto il bosco non è in grado di reagire adeguatamente alle avversità provocate dai fenomeni meteorologici, all’azione di funghi patogeni responsabili di marciumi e carie o alla presenza di insetti parassiti. Tra questi ultimi possiamo ricordare il famigerato bostrico tipografo dell’abete rosso (Ips typographus), un piccolo insetto che nell’ultimo decennio ha causato il deperimento di vaste fustaie di abete rosso della Valle Brembana. Anche lungo la strada per l’Alpe di Cantedoldo, a pochi minuti dal canale che riporta i confini del piano di assestamento, si può osservare a destra, sul lato di monte, una piccola area priva di alberi, sulla quale è stato effettuato un taglio fitosanitario, con lo scopo di debellare una infestazione del bostrico dell’abete rosso che aveva colpito numerose piante. Poiché in questa zona gli alberi sono tutti della stessa specie, l’insetto ha potuto facilmente colonizzare un considerevole numero di piante causando notevoli danni. Inoltre siccome gli alberi sono sostanzialmente coetanei e molto vicini gli uni agli altri, per raggiungere la luce sono cresciuti molto in altezza e poco in diametro e questo li rende sensibili al vento e alle nevicate. Il taglio fitosanitario ha aperto un varco nel bosco ed espone gli alberi alti e sottili agli agenti meteorici, i quali potranno facilmente provocare ulteriori danni come sradicamenti o rotture del fusto.
Per questo motivo è importante intervenire con tempestività e competenza effettuando tagli di diradamento che modellino la struttura e la composizione del bosco, assicurando le migliori condizioni per la crescita e la rinnovazione degli alberi. Proseguendo oltre, la strada lascia il posto all’antica mulattiera che sale più ripida, attraversando un bel tratto di bosco di altofusto ad abete rosso, abete bianco e larice, fino a rimontare una dorsale con terreno più superficiale e minore fertilità, dove torna a dominare il faggio. Giunti sul breve spartiacque, guardando in alto a sinistra o sporgendosi in basso a destra, si intuisce una sorta di lungo corridoio nel bosco: si tratta di un tracciato aperto per l’installazione di una gru a cavo, utilizzata dai boscaioli per trasportare i tronchi fuori dal bosco. La gru consiste in una fune portante tesa in alto tra due ancoraggi, sopra la quale scorre uno speciale carrello collegato ad una fune traente; tramite un argano posto a monte, la fune traente issa il carrello lungo la portante, questo si blocca sulla verticale dei tronchi e libera la traente, la quale può scendere al suolo dove un operatore aggancia i tronchi e dà il comando all’arganista per issarli fino al carrello; quando il gancio della fune traente si blocca sul carrello questo viene calato a valle con il pesante carico. Storicamente i boscaioli della Valle Brembana e di tutta la provincia di Bergamo sono sempre stati particolarmente abili nell’impiego delle funi per l’esbosco del legname. Non a caso i più antichi e rudimentali sistemi a filosono tuttora molto utilizzati lungo la fascia pedemontana e sulle Prealpi Orobie. Non è da escludere che la dimestichezza e l’abilità nell’uso di questi metodi abbia alla lunga penalizzato i boschi bergamaschi, nei quali, la rete delle strade di servizio, costruite per agevolare i lavori selvicolturali, è estremamente modesta ed insufficiente. Subito dopo il dosso dove si osserva il tracciato della gru a cavo, il sentiero si divide: se si sale a destra si attraversa il versante fino alla località Grasselli, se si prosegue verso sinistra si raggiunge il piede dell’Alpe di Cantedoldo. Seguendo il sentiero per l’alpeggio la composizione specifica del bosco cambia nuovamente e l’abete bianco domina ampiamente su tutte le altre specie. Poco prima dell’alpeggio si incontra un tratto di abetina (fustaia di abete bianco) dove sono stati effettuati alcuni interventi selvicolturali finalizzati a regolare la densità, eliminando tutte le piante dominate che non avrebbero potuto crescere nel modo migliore. Poiché la qualità del legname era molto scadente, questo è stato lasciato in bosco, sezionato e sistemato in piccoli cataste in modo da lasciare sgombro il terreno. In questa zona si può osservare la presenza di diverse colonie di formica (Formica rufa), che vivono all’interno di grossi nidi, costruiti accumulando aghi di abete e piccoli frammenti vegetali. La Formica rufa è estremamente importante per l’ecosistema del bosco, in quanto, essendo un’ottima predatrice, mantiene sotto controllo le dinamiche delle popolazioni degli altri insetti e impedisce così che specie parassite pericolose possano proliferare eccessivamente. Giunti al piede dell’alpeggio il sentiero prosegue verso Nord, attraversando un altro piccolo lembo di fustaia mista di abete rosso e abete bianco, con begli esemplari di grandi dimensioni, fino ad arrivare al pascolo posto sotto alla Casera di Cantedoldo. Ormai il sentiero per l’alpe è quasi terminato e vale forse la pena spendere due parole su questo importantissimo elemento del paesaggio che caratterizza gran parte delle montagne orobiche. L’alpe è quella zona di alta montagna dove si conducono le mandrie bovine affinché possano pascolare e nutrirsi delle preziose essenze aromatiche che crescono nelle praterie alpine.
Ogni anno, all’inizio dell’estate, il bestiame, proveniente anche da allevamenti diversi, viene radunato e fatto salire fino ai pascoli posti sopra il limite della vegetazione arborea. Ogni alpe si suddivide in varie “stazioni” ubicate a quote diverse e gli animali, sotto la guida del “caricatore” a cui sono affidati, si muovono lentamente percorrendo tutto il pascolo fino alle quote più alte, sopra i 2.000 metri di altitudine. Verso la metà di agosto la mandria incomincia a scendere e ripercorre l’alpe verso la base, brucando l’erba che nel frattempo è ricresciuta. Dopo la metà di settembre il bestiame abbandona l’alpeggio e torna alle stalle del fondovalle o della pianura. Il caricatore e i suoi mandriani accompagnano la mandria per tutta la durata dell’alpeggio, provvedendo alle quotidiane mungiture e alla lavorazione del latte presso le baite dislocate in ciascuna stazione dell’alpe. L’edificio principale, la “casera”, oltre a essere la base logistica per il personale e per le attrezzature, ospita i locali dove vengono conservate e stagionate le forme di formaggio prodotte in alpeggio. Per giungere alla Casera di Cantedoldo dal piede dell’alpeggio è necessario risalire brevemente la striscia di pascolo in direzione Est, incontrando due piccole baite e una traccia di sentiero sulla destra che porta direttamente alla Casera. Qui ogni giorno il latte “crudo” (ovvero non pastorizzato e particolarmente ricco di batteri lattici) proveniente dalla mungitura delle vacche al pascolo, viene subito caseificato e trasformato in un formaggio di alta qualità unico nel suo genere. Il formaggio di monte, noto con il marchio Formai de Mut dell’alta Valle Brembana, è un prodotto a Denominazione di Origine, di grande valore e dal sapore delicato, che in virtù delle erbe presenti nei pascoli, assume profumi ed aromi caratteristici e inimitabili. Volendo proseguire l’escursione, è possibile rimontare brevemente le pendici a monte della casera fino ad incontrare la traccia del sentiero CAI 113. Seguendola in direzione Nord, si attraversano le belle praterie del Dosso di Gambetta, suggestiva altura a cavallo tra la Val Mora e la Valle di Mezzoldo, regno di camosci, caprioli e marmotte e, in circa 1 ora e 30 minuti, arrivare nella zona del Passo San Marco. In alternativa dal Dosso Gambetta si può prendere a destra il sentiero CAI 135 che scende al Ponte dell’Acqua. In entrambi i casi, al termine dell’itinerario è possibile ristorarsi e pernottare ed eventualmente organizzarsi per un rientro in automobile.